"Formazione e lavoro sono essenziali": intervista alla direttrice del carcere Dozza, Casella

Rosa Alba Casella è direttrice dell'istituto penitenziario di Bologna dal 2022. "Il lavoro è fondamentale per il reinserimento sociale e riduce il rischio di recidiva, ma le aziende richiedono competenze specialistiche che i detenuti non hanno. La formazione è l'unica strada".

carcere generica
 

Il lavoro e la formazione in carcere sono strumenti preziosi per il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti all'interno dell'istituto penitenziario ma anche, soprattutto, nell'ottica di un reinserimento sociale e lavorativo a fine pena. Da marzo 2022, Rosa Alba Casella è direttrice della casa circondariale di Bologna dove si realizzano diversi progetti formativi, tra cui quello finanziato da Insieme per il lavoro in collaborazione con le Acli e Oficina Bologna.

 

Dottoressa Casella, come sta andando il corso di Insieme per il lavoro per formare centralinisti?

“Questa formazione è stata chiesta e realizzata per migliorare il servizio che  offrono i detenuti impegnati nel call center interno e sta procedendo positivamente. Non è una semplice formazione per centralinisti, perché  i detenuti non si limitano a rispondere al telefono, ma forniscono assistenza, e questo richiede l’acquisizione di alcune competenze tecniche”.

 

Quanto contano la formazione e le opportunità di lavoro offerte ai detenuti e agli ex detenuti ai fini del reinserimento sociale?

“Il lavoro è una condizione fondamentale per il reinserimento, poiché è noto che senza una fonte di sostentamento lecito, il  rischio di recidiva è alto. Ma attualmente il mercato del lavoro richiede competenze che i detenuti non hanno. La formazione è dunque essenziale, non solo perché spesso è anche l’unica strada possibile per il reinserimento lavorativo, ma anche perché, così come l’istruzione, il tempo della detenzione  diventa “utile” per la ripartenza e non un tempo sospeso, passato in ozio. Chi sceglie di frequentare un corso di formazione investe nel futuro, per  vivere diversamente rispetto al passato, che lo ha condotto  in carcere.”.

 

Non tutti i detenuti però desiderano formarsi…

“Molti detenuti preferiscono alla frequenza del corso di formazione, svolgere un’attività lavorativa, di tipo domestico o comunque non qualificato, offerto dall’Amministrazione Penitenziaria per poter contare nell’immediato su un minimo di risorse economiche, perché i corsi di formazione in genere non prevedono un’indennità per chi li frequenta. Chi non ha mezzi di sostentamento personali o famigliari preferisce  lavorare, per poter  acquistare beni di conforto al sopravvitto o generi  alimentari per non dover fruire “del carrello”, vale a dire del pasto offerto dall’Amministrazione.  Per questo motivo negli anni ai detenuti sono stati proposti corsi di formazione molto brevi, che li “qualificano” per i lavori interni, necessari al funzionamento della struttura. Il mercato del lavoro richiede, invece, competenze che possono essere acquisite solo con corsi di formazione lunghi, ma ripeto, per molti detenuti poco attraenti.  E a tal riguardo occorre ricordare che il detenuto resta protagonista  del proprio percorso interno e che gli operatori non possono obbligarli a compiere determinate scelte, anche se importanti ai fini trattamentali.”

 

C’è inoltre la difficoltà che vivono i detenuti stranieri in assenza di permesso di soggiorno…

“È vero, perché la mancanza del permesso di soggiorno consente al detenuto straniero di  lavorare all’esterno legalmente solo durante il tempo della carcerazione. Dopo l’espiazione della condanna, il datore di lavoro non può continuare a mantenere il rapporto di lavoro, anche se il soggetto ha lavorato con impegno e competenza. E questo è un motivo per cui molti stranieri non ritengono utile la formazione come porta di accesso al mondo del lavoro”.

 

A proposito di formazione, ci sono corsi che hanno una ricaduta occupazionale interna alla vita penitenziaria e corsi che offrono opportunità fuori dall’istituto, ma sappiamo che la formazione interna, se non seguita da opportunità lavorative esterne, è fine a sé stessa. Qual è l’esperienza di Bologna?

“Il lavoro svolto all’interno dell’istituto penitenziario, quello alle dipendenze dell’amministrazione carceraria, è prevalentemente di tipo domestico e poco  stimolante per i detenuti, tanto che viene vissuto spesso come una forma di assistenzialismo. Il lavoro domestico li aiuta a sostenersi durante la detenzione e ad aiutare la famiglia, ma non consente una progettualità in vista della dimissione, che necessita di altre basi di partenza.  Una persona che non è riuscita a costruire un progetto per il “dopo”, spesso esce con una carico di frustrazione maggiore di quello che aveva all’ingresso . Il carcere attuale non migliora le persone. Per questo ritengo importante  lavorare per fare in  modo che la parte di popolazione detenuta della Dozza, che ha i requisiti giuridici per accedere a una misura alternativa, possa effettivamente fruirne, avendo la disponibilità di un lavoro e anche di un alloggio, che in questo momento è forse più difficile trovare rispetto al lavoro”.

 

Cosa si può fare di più in tal senso?

“Dobbiamo uscire dalla mentalità dell’assistenzialismo e acquisire la mentalità della solidarietà. Due cose si possono fare da subito. La prima: interventi formativi che tengano conto delle reali richieste del mercato del lavoro. Come ho già detto sono tante le aziende in cerca di personale, ma la maggior parte dei detenuti non ha le competenze richieste. La seconda cosa: offrire corsi di formazione che prevedano una qualche forma di indennità, per evitare che il detenuto debba scegliere tra il lavoro domestico e la possibilità di acquisire nuove competenze per raggiungere una stabilità lavorativa ed economica. Una persona dimessa dal carcere senza un lavoro,  senza alcun mezzo di sostentamento lecito, rischia di tornare a delinquere in poco tempo, tanto che la percentuale della recidiva raggiunge quasi il 70%. Il lavoro retribuito e stabile è una condizione indispensabile per far uscire le persone dal cono d’ombra dell’illegalità e garantire un regolare ritorno nella società con un progetto di vita sostenibile”.

 

C’è dunque separazione tra carcere e mercato del lavoro, nonostante gli sgravi contributivi e fiscali concessi alle imprese che assumono?

“Le aziende che assumono detenuti, sia all’interno sia all’esterno del carcere, possono fruire delle agevolazioni previste dalla Legge Smuraglia, ancora poco conosciuta, anche se si tratta di una normativa ormai risalente nel tempo. A complicare le cose, c’è un mondo del lavoro in continuo cambiamento, in cui c’è urgenza di competenze tecniche, di figure sempre più specializzate. A Bologna ci sono 45 detenuti che lavorano stabilmente fuori dell’istituto, ma sono per lo più persone che avevano già delle competenze o le hanno acquisite all’interno, lavorando nella squadra della manutenzione del fabbricato o nell'officina metalmeccanica interna gestita dalla FID (Fare Impresa Dozza). Per tutti gli altri è difficile trovare lavoro, anche se non sono poche, rispetto al passato,  le aziende che in questi mesi hanno effettuato  colloqui di lavoro con i detenuti. I i tirocini formativi in azienda possono aiutare ad accorciare le distanze e sono un valido strumento che l’azienda ha per investire sul lavoratore, ma certamente non sono sufficienti per soddisfare la richiesta di manodopera attuale, anche per quelli che possono apparire lavori “semplici” come impieghi da camerieri o da baristi. Ecco allora l’importanza della formazione, che il legislatore ha riconosciuto,  ponendola tra gli elementi del trattamento accanto al lavoro e all’istruzione, già previsti nel testo dell’ordinamento penitenziario, con la riforma del 2018”.

 

Foto: Unsplash

30/11/2023

 
Data ultimo aggiornamento: 04-12-2023