Lungo la via Emilia tra innovazione e spirito di comunità. Intervista a Franco Mosconi

Nel nuovo libro "Modello Emilia" l'economista traccia le caratteristiche del fare impresa emiliano. E parla di Insieme per il lavoro: "La bellezza del progetto è nel suo investire sui talenti e sulle competenze delle persone senza fare la carità"

FOTO DELLA PRESENTAZIONE
 

Un modello di crescita evoluto, basato su innovazione e spirito di comunità. Sono queste, per Franco Mosconi, professore ordinario di Economia e Politica Industriale al dipartimento di Scienze economiche e aziendali dell’Università di Parma e editorialista per il Corriere di Bologna , le caratteristiche principali del fare impresa in Emilia-Romagna.

Con “Modello Emilia”, il volume uscito a fine marzo per Post Editori, con la prefazione di Stefano e Vera Zamagni, Mosconi compie un viaggio lungo la via Emilia per gettare luce sulle specificità di un territorio unico nel modo di concepire e organizzare il rapporto tra Stato, mercato e comunità. È nelle maglie di questa rete che si trovano le ragioni che hanno permesso di produrre eccellenti performance in molti ambiti della vita economica e sociale della regione. Nel libro, c’è anche una sezione dedicata al “modello apripista” Insieme per il lavoro.

 

Professor Mosconi, perché le imprese emiliano-romagnole sono le più innovative?

“Va fatta una doverosa premessa: pensare di poter spiegare tutti i fenomeni con un algoritmo, nel campo delle scienze sociali è una pretesa assurda. Ho compiuto un viaggio lungo la via Emilia che è costellata da imprese molto innovative, che crescono ed esportano tantissimo. Alcune delle ragioni per cui questo accade si possono identificare e quantificare (pensiamo all’investimento in R&S sul PIL pari a oltre il 2% o al record delle esportazioni pro-capite, con oltre 16.000 di export a testa); altre, come lo spirito di comunità, hanno motivazioni profonde e appartengono alla sfera dei sentimenti morali”.

 

Quali sono le ragioni identificabili?

“Il primo punto è l’aumento delle dimensioni d’impresa: un fenomeno dimostrato dai dati Istat, dal monitor dei Distretti del Gruppo Intesa Sanpaolo, dalla classifica sui Champions del Corriere della Sera, dalle indagini di Mediobanca e Unioncamere, solo per citare alcune fonti. Il consolidamento dimensionale è segno di salute di un sistema. Va da sé che le imprese dalle spalle più larghe siano maggiormente in grado di condurre le due attività sempre più strategiche: la ricerca e lo sviluppo (R&S) e l’accesso ai mercati esteri (export e investimenti diretti). L’aumento delle dimensioni d’impresa ha portato al miglioramento delle specializzazioni produttive, che è il secondo degli ingredienti identificabili dell’innovazione emiliano-romagnola. Il terzo ingrediente è la politica industriale che ha un’importanza strategica perché è focalizzata sull’investimento in conoscenza e in tecnologie abilitanti.

 

Lei sembra suggerire l’idea che questa “nuova” politica industriale sia più sviluppata qui che altrove?

“Sì, è così. La Regione Emilia-Romagna si è mossa con lungimiranza: alcune leggi – come quella del 2014 per l’attrazione degli investimenti o la legge di febbraio 2023 per l’attrazione dei talenti – vanno nella giusta direzione e hanno destinato al mondo delle imprese e della ricerca importanti risorse e una governance adeguata. E ancora: si pensi al Patto per il lavoro e per il clima che è firmato da circa 60 realtà tra associazioni di impresa e di categoria, sindacati, università, enti locali. Ci sono poi numerose leggi regionali per il finanziamento della ricerca industriale, per il trasferimento tecnologico, per gli ITS (presi a modello dallo stesso PNRR). Questo disegno fa intraprendere ad attori diversi delle azioni in comune per lo sviluppo collettivo. E qui arriviamo al quarto ingrediente: lo spirito di comunità”.

 

Ci racconti di più…

“Lo spirito comunitario porta diversi soggetti ad agire su obiettivi condivisi: le imprese private e le loro associazioni, la mano pubblica e la società civile, cioè quello che il grande economista indiano Rajan chiama il “Terzo pilastro”. Questi tre attori collettivi, in Emilia-Romagna più che altrove, sanno cooperare ed è così che nascono dei progetti utili alla comunità”.

 

Alla costruzione del “modello Emilia” contribuisce, dunque, un approccio mentale e culturale al mondo del lavoro. Un carattere identitario della nostra regione?

“Sì, sono infatti molto affezionato al sottotitolo del libro [“Imprese innovative e spirito di comunità”, ndr]:  il modello economico dell’Emilia-Romagna restituisce, a chi lo guarda dall’esterno, non solo una solidità nelle performance ma anche l’idea che ci sia un fortissimo ruolo delle comunità territoriali che cooperano con le imprese. Questo avviene solo se c’è un abito mentale adatto. Le caratteristiche di questo abito vanno molto al di là, come dicevo prima, del campo dell’economia”. 

 

Nel suo libro analizza l’esperienza di Insieme per il lavoro. Che cosa l’ha colpita del progetto?

“Insieme per il lavoro è un’iniziativa proattiva, che utilizzando le risorse messe a disposizione da un concerto di persone – caratteristica tipica del modello emiliano – fa appello ai talenti delle persone, rimette al lavoro chi, per i casi della vita, è rimasto senza impiego. Non lo fa come una classica iniziativa di assistenzialismo, tutt’altro. La bellezza del progetto è nel suo investire sui talenti e sulle competenze delle persone per rimetterle in gioco, per far sì che da sole esprimano il proprio valore”.

 

Insieme per il lavoro si può replicare altrove?

“Investire sui talenti delle persone senza fare loro la carità non è per tutte le sensibilità. Non so se Insieme per il lavoro sia facilmente replicabile in realtà territoriali dove lo spirito comunitario non appartiene al DNA delle persone. Dove, cioè, è difficile che settore pubblico, settore privato e terzo pilastro riescano a mettersi insieme lasciando da parte l’individualismo. Una iniziativa come Insieme per il lavoro – lo dice il nome stesso – si fonda sul fare progetti condivisi”.

 

In che modo, qui in Emilia, si possono migliorare le politiche attive del lavoro?

“Va bene essere tra i primi della classe, ma guai a pensare di vivere in una sorta di Emilia felix.  Ammesso che vi sia stata in passato, oggi non c’è più: anche da noi le crescenti diseguaglianze sono una realtà. Anche da noi, la disoccupazione coglie le fasce deboli della popolazione. Anche da noi, ci sono crisi d’impresa, come quella vissuta a Gaggio Montano. Anche da noi, pur avendo il più forte e solido movimento cooperativo d’Italia e d’Europa emergono, qua e là, le false coop. Insomma, occorre prendere atto di alcuni “rischi involutivi”. Tra questi c’è la questione demografica: la popolazione invecchia e ci sono sempre meno lavorativi attivi. Inoltre, la società è attraversata da crescenti diseguaglianze, a partire da quelle create dalla disoccupazione. Per queste ragioni, le politiche attive del lavoro devono avere alcune priorità: il rilancio della formazione tecnica e professionale, la riforma dei centri per l’impiego, le politiche per i giovani neet, un nuovo welfare più adatto alle esigenze delle famiglie e delle donne (pensiamo all’importanza degli asili nido). Dobbiamo pensare anche alla parte non privilegiata della società e a un migliore utilizzo delle risorse umane”.

 

Il mondo del lavoro sta cambiando rapidamente: la pandemia ha accelerato processi, come il lavoro da remoto, e invertito tendenze, come il rapporto tra domanda e offerta. Cosa sta succedendo?

“La pandemia ha esacerbato le diseguaglianze e gli strumenti dello stato sociale sono più o meno rimasti gli stessi. Bisogna allora prendersi cura non solo della classe media, ma anche di quelle che, per semplificare, possiamo chiamare la testa e della coda della società. Ora, la testa (le eccellenze) ha bisogno di alcuni fondamentali strumenti sul piano della ricerca e dell’innovazione, dopodiché è capace di correre – eccome – con le proprie gambe. Ma la coda da sola non può farcela: ha bisogno di cure particolari sennò resterà per sempre indietro, per generazioni e generazioni, come i dati della Caritas tristemente ci dicono. La classe dirigente regionale – non solo quella politica – deve convenire sul fatto che occuparsi della coda della società è un imperativo morale. E non si tratta soltanto, come non pochi pensano, ‘di fare la carità’: rimettere al lavoro chi ne è escluso migliora infatti l’efficienza stessa della società, oltre che la sua equità”.

 

In foto: un momento della presentazione del libro "Modello Emilia" nella sede bolognese di Confindustria; da sinistra, il professor Franco Mosconi, il presidente di Confindustria Emilia Area Centro, Valter Caiumi, il fondatore di Italy Post, Filiberto Zovico e la HR manager di Marchesini Group e presidente della Fondazione Marchesini ACT, Valentina Marchesini.